Dal più rappresentativo poeta del Romanticismo italiano, nonché di tutto l’800, ci si aspetterebbe una morte in giovane età (ricordo una frase di Menandro che lui stesso iscrisse introducendo il canto Amore e Morte: “Muore al giovane colui che al cielo è caro”): morte che in effetti avvenne alla “tenera” età di 39 anni.
Dal poeta che diede vita alla poesia libera, da colui che spezzò il dispotismo del sonetto petrarchesco, ci si aspetterebbe una morte giovane (cosa che, come abbiamo visto sopra, avvenne) ed eroica, alla Byron, alla Foscolo, combattendo per la patria magari, o per un ideale. No, questo non avvenne.
Giacomo Leopardi, infatti, si trovava in provincia di Napoli, accudito dall’amico Antonio Ranieri da cui cercò di carpire il segreto per conquistare una donna, lui che morì vergine e che, forse, a causa delle tante sue indisposizioni fisiche, era anche impotente: la tubercolosi ossea, le gobbe (una avanti e una dietro), la quasi cecità, lo angustiarono per tutta la vita. Era in compagnia di Ranieri, dicevo, e della sorella di quest’ultimo, a pranzo, in una villetta nelle campagne del napoletano, quando gli venne servita una minestra bollente, che lui trangugiò di gusto. Al termine del pranzo, volle assaporare le gelide granite napoletane di cui era ghiotto. Così fece. Non passò molto, che si sentì mancare: una stanchezza improvvisa, un male al cuore, una totale abulia, che lo costrinse a letto in poco tempo, febbricitante e dolorante all’intestino. Fu congestione. Morì, Giacomo Leopardi, per una congestione, accudito dall’amico Ranieri, mentre a Napoli imperversava un’epidemia di colera. Così sfortunato, dunque, da morire non per colera, come sarebbe stato ovvio in quegli anni di malasanità e carestie, ma di semplice congestione. Troppo caldo (la minestra) e troppo freddo (le granite) gli causarono quella congestione che lo portò alle sue ultime parole: “Totonno, non ti veggo più” (“Antonio, non ti vedo più”). Che non lo vedesse più, dato il suo difetto agli occhi, era normale: un peccato fu, che non lo avrebbe davvero visto più.
Aveva il vizio di fiutare tabacco e di non star mai fermo con le dita delle mani, un fattore nervoso: era iperattivo. Ciò che lo distrusse, però, fu il suo incredibile amore per i dolci, insomma: soffriva di cioccolismo, dipendenza da dolciumi. Nonostante l’amico Ranieri (che salvò la sepoltura di Leopardi dalla fossa comune: a causa del colera, tutti i morti di quegli anni venivano sepolti lontano dalle città in fosse comuni) avesse avvertito le autorità della morte del poeta per idropisia (cioè un edema, uno stravaso del sangue dai vasi che, fuoriuscendo dalle vene, si deposita negli organi causando un gonfiore, di solito a livello addominale), le ipotesi sulla morte di Leopardi si moltiplicarono: qualcuno avanzò l’ipotesi che fosse morto per un’indigestione causata da confetti di Sulmona offertigli dalla sorella di Ranieri. Probabile, data la sua dipendenza. Ma non fu così.
Una congestione lo stroncò, un’umana congestione. È il modo che il Signore ci ha dato per capire che anche lui, che tutto sapeva o pensava di sapere, era un uomo, uno di noi?
Giacomo Leopardi - Amore e Morte letta da Carmelo Bene
Se l'articolo ti è piaciuto, iscriviti ai feed per tenerti sempre aggiornato sui nuovi contenuti del magazine, oppure diventa fan della nostra pagina facebook e seguici su twitter. Se hai la passione per la fotografia non perderti il nostro gruppo su flickr e seguici su instagram. |